Era dura bissare “Transformer”. Infatti bis non fu: nel 1973, dopo il successo del disco prodotto dalla coppia glam Bowie-Ronson, Lou Reed generò “Berlin”, fiasco istantaneo, concept album talmente lugubre che leggenda narra che il nuovo produttore Bob Ezrin cadde in depressione lavorandoci su.
“Berlin” è la storia di Jim e Caroline, amanti disastrati e smarriti fra abuso di droga, violenza domestica, prole espropriata dai servizi sociali, polsi tagliati, un’odissea decadente nata per essere eseguita dal vivo da cima a fondo e invece mai eseguita per colpa della reazione di chi, pubblico e critica, all’epoca pretendeva altre “Walk on the Wild Side” ed ebbe in cambio una manciata di canzoni decisamente meno orecchiabili.
Mai eseguita, fino al 2006. Julian Schnabel crea il set al St. Ann’s Warehouse di Brooklyn, Reed fa l’appello: presenti archi, fiati, Ezrin in veste di direttore d’orchestra, uno Youth Chorus, le backup vocals dell’adorato Antony (oggi Anohni, al femminile). Quattro operatori riprendono il concerto fissando il coinvolgimento emotivo intuibile dietro le rughe di Lou Reed, il quale gesticola e parla di Caroline su un fondale accennato che raffigura un motel fatiscente. Caroline ha volto e corpo di Emmanuelle Seigner: appare spettrale in 8 mm sovrimpressa in trasparenza ai musicisti, accavallandosi a Reed in una regione sospesa fra musica e immagine, fra location e schermo, dove la voce stonata del cantante si alza a raccontare frammenti di vita vissuta, spesso sprecata, cocciutamente rivendicata.
Nell’encore Antony avanza sul palco e cerca se stesso dentro “Candy Says”, mentre Reed regala l’occasione di prendere fiato dopo il dramma di Caroline e attacca il riff di “Sweet Jane”, affidando a Schnabel il compito non tanto di documentare in video un evento posticipato per troppo tempo, quanto di riavvolgere e celebrare un’esperienza artistica, musicale, poetica lunga cinquant’anni.