Da mito nasce mito. Se il varo della definizione “Club 27” è attribuito a mamma Wendy Cobain, che dopo la morte di Kurt dichiarò in un’intervista di aver più volte pregato il figlio di non unirsi al fantomatico club (in realtà pare si riferisse al girone di suicidi a cui si destinarono numerosi membri della famiglia Cobain), la genitura della leggenda risale a Robert Johnson, impareggiabile bluesman nato nel 1911, già custode di nebulose incognite prima che allo scadere della fatidica età di ventisette anni la morte si presentasse a chiedere il conto (è nell’ambito della musica “elettrica” che ci stiamo muovendo, tralasciamo quindi la dipartita misteriosa del compositore e pianista brasiliano Alexandre Levy, 1864 – 1892).
Johnson, a inizio carriera chitarrista-brocco, sparisce nel nulla dopo aver perso la moglie e riappare in società a distanza di un anno, dotato per magia (nera?) di un talento tecnico alieno, fuori dall’ordinario, da far sbarrare gli occhi, oggetto di venerazione postuma da parte di Muddy Waters, Eric Clapton, Rolling Stones, Jimi Hendrix, Led Zeppelin e guitar heroes assortiti. Dicono abbia incontrato il Diavolo a un crocevia e ci abbia stretto un patto, o che si sia imbattuto in una sorta di maestro zen del blues sottoponendosi a un allenamento tipo Pai Mei-Beatrix Kiddo. Fatto sta che suona la sei corde come nessuno ha mai fatto e muore (forse avvelenato da un rivale amoroso, forse chissà) a ventisette anni, al termine di un concerto. Lo segue una compagine di artisti gospel, jazz, blues, rock, tra i quali il più famoso in ordine cronologico (nel 1969) è Brian Jones, fondatore degli Stones, sul cui certificato di morte leggiamo un insoluto “death by misadventure” (si vociferano omicidi) che sembra riassumere non solo il decesso ma anche la vita del musicista. Jimi Hendrix gli dedica una canzone in diretta tv, Jim Morrison un poema. Entrambi lo raggiungono nel sempre più nutrito Club 27 nell’arco di un biennio, intervallati l’uno dall’altro da Janis Joplin.
Tanto è luccicante la superficie della Maledizione dei Ventisette Anni, quanto affollato il suo sottobosco. I nomi che tornano sono noti, da Jones a Winehouse, giustamente (o meno) irraggiati dall’hype della fama. Ma al loro fianco si schierano sodali di eguale rispetto e sventura quali Pigpen (Grateful Dead), Dave Alexander (Stooges), Gary Thain (Uriah Heep), D. Boon (Minuteman), Pete de Freitas (Echo & the Bunnyman), chi morto per il connaturato parossismo di quella dimensione parallela che è il music lifestyle, chi per pura e semplice sfiga.
A chi volesse approfondire basterà un click su Google per spalancare un’archivistica di articoli, saggi e compendi sul tema (alcuni serissimi, perfino scientifici, altri romantici, esoterici o complottisti). Elisa Giobbi ne ha scritto uno (“Rock’n’Roll Noir – I misteri, le relazioni e gli amori del Club 27”, Arcana, Lit Edizioni, 2016) a cui Matteo Regattin, Cristina Iurissevich, Riccardo Mazza & Laura Pol hanno attinto per mettere in piedi “Club 27: On the Tracks of 7 Stars”, performance crossmediale fra illustrazione, sperimentazione video e musica elettronica prodotta nell’ambito della quarta edizione di Seeyousound International Music Film Festival. L’esibizione live andrà in scena sabato 3 marzo (h 21) al Museo Nazionale del Cinema e renderà protagonisti di un mélange sensoriale e percettivo i sette esponenti del club più universalmente (ri)conosciuti (Johnson, Jones, Hendrix, Joplin, Morrison, Cobain, Winehouse), per ribadire tramite loro la continuità di un immaginario che, nonostante i mutamenti di paradigma (musicale), non ha smesso di esercitare il proprio fascino.
SEEYOUSOUND PRESENTA:
Club 27: On the Tracks of 7 Stars
di Matteo Regattin, Cristina Iurissevich, Riccardo Mazza & Laura Pol
h 21 – ingresso con il biglietto del Museo
Museo Nazionale del Cinema – Aula del Tempio della Mole Antonelliana
via Montebello 20/A – Torino