Di Alessandro Battaglini
Gli IDLES sono una delle grandi sensazioni del rock degli ultimi 4 anni, ci sono pochissimi dubbi a riguardo e chi lo nega è probabilmente di parte. Sono esplosi in un periodo, a parte poche e rare eccezioni, oggettivamente noioso e che non presentava, musicalmente, nulla di così eclatante all’orizzonte. L’indie spopolava assumendo toni e connotazioni diverse da paese a paese e lasciando il controllo musicale ad un esercito di hipster comodamente e colpevolmente cullati in un mondo in “decrescita felice”. In questo contesto la band di Bristol capitanata da Joe Talbot ha avuto un tempismo perfetto, senza inventare niente, senza proporre nulla di incredibilmente mai visto, ha semplicemente urlato un’urgenza, un dolore necessario e violento che non era solo il loro, ma di tutta una parte di pubblico o di società, che non voleva più fare finta che andasse tutto bene e che ha convogliato questo livore in un’esperienza catartica e migliorativa. La grande peculiarità di questo gruppo è infatti quella di aver rovesciato il concetto tradizionale di punk (etichetta che però Talbot ha più volte violentemente rifiutato), di essersi allontanati dalla potenza autodistruttiva originaria di questo genere, invocando invece del “no future” un “different future”, certamente politico, la cui musica mette al centro una serie di temi e di valori che sembravano persi, non più importanti o messi colpevolmente in secondo piano.
In un mondo turbocapitalista (ma sempre in crisi) in cui vince l’individuo sempre più performante e produttivo gli Idles cantano gli inni di una comunità imperfetta, fragile, ferita, spesso anche umiliata, ma per questo bellissima. Una comunità che si identifica con le lacrime a Glastonbury di un omone arrabbiato che urla di amare il prossimo e accettarsi per quello che si è, che non ha paura di mostrare il dolore per la perdita di sua figlia, che propone un modello di mascolinità che è forte nella propria vulnerabilità. Un’anima aggressiva che invoca gentilezza, compassione, tolleranza e accoglienza. Questa continua contrapposizione tra aggressività e dolcezza, tra rabbia e amore, diventa una sorta di seducente perversione, prima straniante poi trascinante, quell’urgenza di voler “uccidere con la dolcezza”, il manifesto attuativo di un disegno che vede nella gioia il vero atto di resistenza ad un mondo che fa di tutto per farti sentire inadeguato. Analizzando tutto questo non risulta difficile comprendere il successo di questi barbuti e tatuati uomini avviati verso la middle-age, come non risulta difficile capire la numerosa partecipazione alla “AF Gang”, la comunità online creatasi attorno a loro, più che altro perché rivendica con forza il più grande bisogno della società moderna, accentuatosi fortemente grazie alla pandemia: quello di comunità e l’umano bisogno di appartenenza.
Per questo e tanti altri motivi posso ritenermi un grande fan degli Idles: ho tutti i loro dischi, possiedo una loro maglietta, spesso partecipo alle conversazioni della AF Gang, trovo l’energia convulsa della loro musica e il loro violento urlo di reazione contagioso e trascinante, specialmente in questo periodo della mia vita. Penso che “Danny Nedelko” o “I’m Scum” dovrebbero diventare canzoni della mia generazione, da urlare a squarciagola in ogni manifestazione. Il grande rischio – che tutto quello di cui sopra comporta – è, però, che la forza creativa della band rimanga stretta da questa immagine creatasi attorno a loro, omologandola e creandole una comfort zone, che ritengo la più grande trappola per ogni artista. E’ un attimo che l’attenzione verso gli ultimi si trasformi in socialismo da salotto, o che il messaggio politico diventi ripetitivo e autoreferenziale. Il rischio e la paura che ciò accada ci sono, è purtroppo una curva che ho visto più volte compiersi per molti gruppi nel corso dei miei quasi 40 anni di vita, quasi tutti in concomitanza o dopo il terzo disco, rimanendo, soprattutto negli anni ’90, giovane e appassionato, spesso deluso come un fidanzato tradito. Non sarebbe questo il caso, sono troppo agè per prendermela così tanto, ma mi dispiacerebbe molto, perché mi piacciono davvero tanto. Grazie a Dio però non è questo ancora quel tempo, quindi, continuo a ballare sulla loro musica, non vedo l’ora di poterli vedere live sudando, pogando e saltando (so già che in quel momento sentirò “di avere gli anni che ho” (cit.) e mi pentirò amaramente di aver voluto fare di nuovo il 20enne), ma soprattutto “non farò mai a botte con un uomo con la permanente”.
Voi, invece, godetevi Don’t go gentle, che è davvero un ritratto sincero degli IDLES e una celebrazione di questo splendido fin qui percorso.