di Umberto Mosca
Nella Gran Bretagna del dopoguerra, l’atteggiamento degli ambienti culturali inglesi nei confronti dei nuovi modelli musicali e cinematografici provenienti dagli Stati Uniti è incentrato su un forte sospetto verso le forme di intrattenimento di massa come il rock’n’roll.
I Beatles vedono nel cinema un luogo privilegiato per stemperare questa diffidenza, non solo per il fatto che la loro immagine moderatamente impertinente piace un po’ a tutte le generazioni, ma soprattutto perché, con loro, la musica pop si trasforma in un’espressione artistica. Alla base dell’assunzione di tale dignità culturale vi è il fatto che, a differenza di ciò che accade negli Stati Uniti, i Beatles gestiscono direttamente la propria immagine, lavorando a stretto contatto con i registi dei loro film (vedi Richard Lester) o addirittura curando la regia in prima persona.
Il loro primo film, A Hard Day’s Night, uscito nel 1964, riflette sul rapporto tra la realtà e la sua interpretazione, offrendo una complessa riflessione sul carattere del divismo e sui suoi meccanismi di costruzione. Il secondo film, anch’esso diretto da Richard Lester l’anno successivo (il 1965) in collaborazione creativa con gli stessi Beatles, sceglie di perlustrare le possibilità espressive del film a soggetto di genere, a metà tra l’avventura e la spy-story, laddove l’opera precedente si confrontava con gli stili innovativi del documentario.
A differenza di ciò che accadeva in A Hard Day’s Night, dove lo spettatore veniva subito impegnato nella rincorsa degli scatenati Four in partenza per Londra, qui c’è un prologo decisamente più “narrativo” a precedere la messa in scena dei protagonisti. Un gruppo di fanatici indu sta per offrire un sacrificio umano alla dea Kali, ma la cerimonia non può compiersi fino in fondo perché ci si accorge della mancanza dell’anello sacrificale.
Un colpo sui piatti della batteria, infatti, si sincronizza sul primo piano dell’anello di Ringo Starr che costituisce l’oggetto motore dell’intero racconto e rappresenta la metafora dell’irresistibile seduzione sulle vergini esercitata dai Fab Four sulle giovani di tutto il mondo, oltre ad anticipare le nuove istanze di liberazione sessuale in via di diffusione.
Si tratta di un clamoroso rovesciamento di prospettiva rispetto al film precedente: là si iniziava “vicino ai Beatles” (nel cuore della stagione di Liverpool), qui tutto prende le mosse in India, nel posto più remoto possibile. In gioco è innanzitutto il confronto tra la modernità e la tradizione, tema assai caro a una nuova cultura giovanile fortemente interessata ad affermare la propria esistenza di cui i Beatles sono ispiratori e portavoce insieme.
Ma Help! è anche un film coltissimo che venera la storia del cinema, perché dopo aver idealmente inseguito il modello Lumière nel film d’esordio, in questa seconda opera Lester e i Beatles si ispirano al confronto con l’altro grande pioniere del cinematografo, quel Méliès che lavora sull’immagine come luogo preferito per realizzare l’evasione dalla realtà, senza dimenticare i tanti omaggi a quegli artisti del Surrealismo che proprio della riscoperta di Méliès furono gli artefici.