Proprio lì, proprio quel giorno. A vedere il documentario “Fatboy Slim: Right Here, Right Now” di Jak Hutchcraft, presente nella sezione LP Doc della decima edizione di Seeyousound, viene da pensare “beato chi c’era quel giorno a ballare a Brighton la musica di Fatboy Slim”. E non erano in pochi, ma ben 250.000 persone. Una cosa irripetibile, in grado di cambiare la percezione della musica da rave. Proprio Fatboy Slim, all’anagrafe Norman Cook, racconta ciò che accadde quando un quarto di milione di persone scese sulla spiaggia di Brighton per il suo concerto organizzato nel 2002. Un’ottima scusa per ripercorrere la fiorente scena dei club di Brighton e rivivere quello che sembrava un periodo dannatamente bello con testimonianze anche di John Sim, Carl Cox, Simon Pegg, Nick Frost e un sacco di ravers tutti desiderosi di raccontare la propria storia di quel giorno.
Jak Hutchcraft, giornalista e documentarista britannico che ha sempre avuto un debole per le storie umane che si celano dietro la musica, è riuscito per il suo primo documentario a mettere assieme testimonianze e materiali originali di quel giorno creando un’ottima fotografia di quella che è una tappa importante per l’organizzazione degli eventi che interessano masse di appassionati, tanto nel Regno Unito quanto nel resto del mondo. Jak è presente a Seeyousound e siamo riusciti a intercettarlo per una piacevole chiacchierata sul film.
Norman Cook è di Brighton, a cui è molto legato come spiega all’inizio del film. Poteva avvenire solo a casa sua questo evento?
Si, anche per la sua storia. Brighton è un luogo dove le persone vanno a cercare una specie di salute alternativa e la celebrazione della vita, non solo una giornata al mare. In un certo senso anche i rave sono una salute alternativa. Brighton è una città liberale e che supporta le arti, infatti Fatboy Slim ha ricevuto i permessi per fare questo party solo lì. In nessun altro luogo del Regno Unito glielo avrebbero permesso. A Brighton si incontrano tante persone diverse, tra chi arriva da Londra e artisti. Per questo poteva accadere solo lì e ora è parte della storia della città.
Sei riuscito a radunare tante persone e tante voci per questo film. Artisti, attori, poliziotti e i ravers. Quanto materiale sei riuscito ad accumulare?
Sono andato lì e semplicemente ho parlato con le persone nei pub, chiedendo se erano presenti al rave. Abbiamo creato un indirizzo mail per raccogliere testimonianze e quando Fatboy Slim lo ha diffuso sui social media sono arrivate migliaia di risposte e storie. La maggior parte delle persone ci ha scritto che quel concerto ha un posto speciale nel loro cuore. Lì ho capito che c’era una storia davvero grossa da raccontare. Molte persone hanno trovato l’amore su quella spiaggia, altri hanno deciso di diventare DJ. Le testimonianze diverse permettono di dare al documentario un punto di vista completo, la vera storia di quel giorno. È importante questo aspetto per qualsiasi documentario.
Come hai convinto Norman Cook della tua idea?
L’ho contattato e lui mi ha invitato a casa sua. Una cosa che lì per lì mi ha emozionato, ma anche spaventato. All’improvviso mi sono trovato a casa di una leggenda della musica elettronica britannica e dovevo, passami il termine, vendergli la mia idea. Lui è una persona straordinaria, di mentalità molto aperta. E così l’ho convinto, mangiando crisp insieme a lui (ride). Non mi ha mai messo pressione sul documentario, è sempre stato di grande supporto.
Fatboy Slim ancora oggi è un artista che raduna tante persone per un suo dj set, anche se la proposta di artisti è molto più ampia e variegata rispetto al periodo di cui parla il documentario. Non è a da tutti avere una carriera da dj così lunga. Cosa lo rende così speciale?
E un genio strano, che mette d’accordo tutti, senza legarsi a un genere in particolare. A un gig può suonare gli ABBA, hard house, techno, hip-hop e i Rolling Stones tutti assieme. Devi essere molto coraggioso oggi per fare questo, e lui mentre lo fa emana una gioia unica. Per questo è così speciale. Ama quello che fa.
Quello di Brighton era un evento gratuito, in grado di portare 250.000 persone per un solo giorno. Pensi che dopo quel giorno l’industria musicale ha guardato agli eventi clubbing in maniera diversa?
All’improvviso ci si è resi conto di quante persone potesse attirare un dj. Ha cambiato la loro iconografia, rendendoli delle rockstar. Dopo quel giorno i dj sono diventati importanti, pensiamo a Calvin Harris per dirne uno. Indubbiamente nel Regno Unito dopo quell’evento gli altri sono diventati anche più sicuri. E il fatto che non ci siano stati feriti è importante.
Cosa pensi di cosa sono diventati eventi simili oggi, come i festival di musica techno presenti in tutti il mondo?
C’è un eredità da party illegale, che stanno sono un po’ sparendo ma se cerchi bene li trovi. Mi piace come si sia evoluto il movimento della musica elettronica, ma non mi piace il fatto che sia alle volte un po’ esclusivo: alcune persone non possono permettersi di andare a ballare. I free party come quelli sono molto più inclusivi, uno così grosso non credo riesca a ripetersi. Senza guardare solo ai festival, i locali grossi, che possono radunare qualche migliaio di persone, sono meno speciali dei locali piccoli, che purtroppo fanno fatica a sopravvivere. La visione capitalistica ha preso il sopravvento. Le grandi aziende sono entrate in questo ambiente e credo sia pericoloso, perché rischia di portare via l’idea alla base della cultura rave. La musica deve essere per tutti, qualcuno invece sta provando a prenderla. C’è del bene e del male. Per questo quel giorno sulla spiaggia è irripetibile.
Il momento più divertente da mettere nel documentario?
È stato difficile trovare materiale diverso dalle testimonianze. Non c’erano i telefoni come oggi, quindi la maggior parte dei video viene dalla televisione. Volevo però entrare in possesso di foto e video dei ravers. La mia clip preferita ci è stata mandata proprio quando stavamo per finire il montaggio. Un video da una fotocamera digitale in cui saranno state le 4 o 5 del mattino e ci sono queste persone molto ubriache o strafatte che hanno freddo ma si stanno divertendo aspettando l’alba. Cattura l’essenza della festa. Uno dei pochi video amatoriali che esistono di quel giorno.
Hai parlato dei pochi video amatoriali esistenti. Generalmente la cultura club non ama riprendersi durante le feste, ma oggi con i telefoni questa cosa sta cambiando, cosa ne pensi?
Quando la gente si trova nel dancefloor è libera di perdersi e lasciare andare tutti i pensieri in grado di affliggere. Ballare e basta. Oggi quella libertà viene ripresa inconsciamente dai telefoni, e quindi perde un po’ la sua essenza. Non resta lì il momento se lo riprendi. Di sicuro però un documentario su un evento simile avvenuto con le persone in possesso degli smartphone sarebbe stato più semplice per me da mettere assieme.
Quante ore ci hai lavorato per montare tutto?
Ci ho lavorato due anni e mezzo. Il montaggio è stata un po’ una caccia al tesoro. Mi sembrava di giocare a “Dov’è Waldo”. Le persone che ho intervistato mi dicevano dov’erano più o meno durante il festival e io cercavo di trovarle nella folla. È stato divertente. Alla base del documentario c’è un idea di gioia e comunità, che è molto importante per me. A questo evento c’è una grande storia. 250.000 persone ma pochissimi poliziotti. E in questa situazione le persone si sono aiutate, si sono prese cura l’uno dell’altro, perché non c’erano risorse per tutta quella marea di persone. Una bella storia su come sono fatti gli esseri umani quando si sentono liberi di festeggiare.