Appunti per un film su Faulkner. Però accantonati subito e stornati sulle persone, le facce, le voci del Mississippi, le country folks secondo Jean Renoir simili ovunque nel mondo. Tavernier e Parrish, un francese che rimaneggia i generi, un americano che prima di diventare regista è stato montatore per John Ford, insieme per quella che doveva essere una miniserie televisiva in quattro puntate (e lo è stata: “Pays d’Octobre”), poi ridotta a cento minuti per il grande schermo. Un viaggio sulle strade del Mississippi fra catapecchie, bettole, chiesette di legno, paludi, coltivazioni ormai quasi scomparse, dove la gente vive in bilico fra l’attaccamento alla tradizione e la paura del progresso, dove è morta Bessie Smith dopo un incidente in auto perché scacciata da un ospedale per soli bianchi, dove la Coca Cola si è evoluta da sciroppo a business. Dove nel 1982, anno delle riprese, l’integrazione razziale è solo de iure, non de facto, dove i neri ancora piangono Malcolm X e il dottor King, e dove suonare e cantare il blues significa tenersi stretta un’identità che rischia di tramutarsi nel ricordo di un passato che si vorrebbe non passasse mai.
Le fibrillazioni religiose, razziali, politiche, economiche trovano sfogo e distensione nei luoghi filmati: il centro caldo del sud degli Stati Uniti, fra le contraddizioni di una comunità ai margini della vita cittadina e del tempo presente; i templi battisti dove il gospel è una cosa seria; i locali e le case private dove s’imbracciano chitarre e si traducono malumori in musica. Con l’atteggiamento di chi non vuole dimostrare ma soltanto mostrare, “Mississippi Blues” invade campi diversi, documenta il proprio farsi quando i due registi sono in scena, reifica memorie con inserti di fiction in b/n, esplora attraverso il linguaggio musicale le radici di una società nella società, il cuore del cuore di un paese (direbbe William H. Gass) che con gli occhi non vede lontano ma con le note va giù nel profondo.