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SYSPEDIA – “Accordi e disaccordi” di Woody Allen

34033_17_mediumLa musica ha sempre svolto un ruolo centrale nella filmografia di Woody Allen; del resto, quando si pensa al comico statunitense, le prime cose che vengono in mente sono i personaggi nevrotici, New York –spesso colorata dalle tinte autunnali- e le melodie del jazz più “vintage” e tradizionale. Lo stesso Allen suona il clarinetto per la sua New Orleans Jazz Band, ma basterebbe ripassare la lista delle cose per cui vale la pena vivere che conclude Manhattan per comprendere il filo doppio che lega Woody Allen alla musica.

Le colonne sonore nei suoi film hanno sempre svolto un ruolo superiore al semplice accompagnamento, diventando, anche quando non diegetiche, parte fondamentale del film in maniera ben più evidente e decisiva che in altri autori. Questo rapporto viene esplicitato in un film che, da molti, viene considerato come l’ultimo davvero grande film di Allen prima del suo declino (chi scrive non è del tutto d’accordo sul luogo comune del declino alleniano, ma questa è un’altra storia): Accordi e Disaccordi (1999), storia di Emmet Ray (Sean Penn, formidabile), chitarrista jazz degli anni ’20 dall’enorme talento sopraffino e dall’altrettanto evidente cialtroneria, condannato a sacrificare sentimenti e felicità in nome del proprio talento e del proprio ego, fino alla sofferta presa di consapevolezza finale.

Il film ha una cornice da “mockumentary” (con interventi di varie personalità, tra cui lo stesso regista nel ruolo di se stesso) che si alterna a momenti di pura e dichiarata finzione. Sorvolando sul quasi perfetto mix tra la comicità di molte scene esilaranti e l’amarezza di un ritratto allo stesso tempo sconsolato e pieno d’affetto –sublimato nello struggente finale- che rende il film uno degli esempi più freschi e gradevoli della tipica poetica agrodolce alleniana, quello che qui più interessa è -appunto- il ruolo assunto dalla musica.

Fondamentale è il discorso autobiografico: Emmett Ray è infatti un ennesimo alter-ego dell’autore. Discorso che vale sia se si guarda la sofferta rappresentazione dell’interiorità del personaggio, l’ironico racconto delle sue vicende sentimentali e la riflessione sull’artista e sul successo, ma che acquista un significato ulteriore proprio perché il protagonista è un musicista. È come se Allen, dedicando il film al suo amato e onnipresente jazz “classico”, avesse voluto fare una ricognizione precisa su uno dei principali punti cardinali della sua poetica (e della sua vita). La musica come elemento autobiografico diventa così uno dei tanti specchi con cui l’autore ha raccontato se stesso e il suo mondo, uno dei più importanti e sofferti.

Decisivi sono anche i continui riferimenti al mitico chitarrista gitano Django Reinhardt, a cui l’opera è dedicata: il mito della chitarra jazz è per il protagonista oggetto di venerazione quasi divina, e questa venerazione diventa causa delle sue paure, della sua incompletezza e delle sue nevrosi. È un po’ il rapporto che Allen ha mostrato verso i grandi registi da lui amati, omaggiandoli con grandi film in cui però il senso d’inadeguatezza e di rispetto del regista nei loro confronti era quasi palpabile.